I c.d. danni da emotrasfusione comprendono i danni da contagio di malattie come l’HBV (epatite B), l’HCV (epatite C) e l’HIV, contratte all’esito di emotrasfusioni infette o anche di vaccinazioni.
In questi casi, il paziente potrà richiedere l’indennizzo previsto dalla legge n. 210/1992, subordinato al vaglio di una specifica commissione medica. Si tratta di una misura meramente assistenziale, cui potrà aggiungersi una vera e propria richiesta di risarcimento dei danni.
Questa potrà essere rivolta al Ministero della Salute e/o alla struttura ospedaliera e/o al medico ritenuto responsabile.
Il regime giuridico applicabile (compreso il termine di prescrizione) varia a seconda del soggetto convenuto in giudizio. Così, se si rivolge l’azione contro il Ministero della Salute, la fattispecie sarà inquadrabile nel genus della responsabilità extra-contrattuale ex art. 2043 c.c., con conseguente prescrizione quinquennale; viceversa, la disciplina applicabile sarà quella della responsabilità contrattuale ex artt. 1218 c.c. e ss. negli altri due casi, con conseguente prescrizione decennale.
Di certo, fermo restando l’indubbio vantaggio del raddoppio del termine prescrizionale, non sempre sarà conveniente citare la specifica struttura ospedaliera, né tanto meno il singolo medico. Spesso infatti l’infezione si genera in un contesto di terapie di lungo corso (a meno che non sia chiaramente riconducibile ad un singolo episodio) e può essere assai complesso stabilire presso quale struttura (e tanto più da parte di quale medico) sia stata praticata la trasfusione incriminata. Meglio allora, di regola, convenire in giudizio (anche) il Ministero della Salute, che risponderà a titolo di culpa in vigilando.
Semmai, proprio con riferimento al termine di prescrizione, oltre alla durata del termine, trattandosi di danni c.d. lungo-latenti (vale a dire, che possono manifestarsi anche a distanza di molto tempo dopo il fatto che li ha cagionati), si è posto in materia il problema di stabilire da quando tale termine prenda a decorrere.
Già nel 2003, la Cassazione stabilì che in tali casi il dies a quo della prescrizione debba decorre dal momento in cui il danneggiato percepisce o può percepire, secondo l’ordinaria diligenza, l’evento lesivo, oltre che la sua ingiustizia (Cass., Sez. III Civ., 21 febbraio 2003, n. 2645).
Negli anni, poi, tale termine iniziale è stato precisato, individuandolo, da ultimo, in buona sostanza, nel momento in cui il paziente avvii un’iniziativa che sia volta specificamente a vedersi riconoscere il ristoro dei danni che pretende di avere subito.
Così, anche la giurisprundenza più recente ha ribadito che il dies a quo vada identificato nella domanda di indennizzo proposta ai sensi della suddetta legge n. 210 del 1992 – e non nel responso della commissione medica –, da ritenersi come limite temporale ultimo oltre il quale sarebbe illogico ritenere che la prescrizione possa iniziare a decorrere. Ciò a motivo del fatto che è ragionevole ipotizzare che da tale momento la vittima del contagio debba comunque aver avuto una sufficiente percezione sia del tipo di malattia, che delle possibili conseguenze dannose, percezione la cui esattezza viene solo confermata con la certificazione emessa dalle commissioni mediche. Altrimenti, infatti, neppure si sarebbe determinata a proporre la suddetta domanda (Cass., Sez. III, Civ., ord. 5 febbraio 2018, n. 2665; conf. Cass., Sez. III Civ., 29 marzo 2018, n. 7776).