Negli ultimi anni, la diffusione su larga scala di strumenti di comunicazione e di interazione di massa come i social network, veri e propri spazi virtuali aperti a tutti, in cui ogni utente può manifestare le proprie opinioni e rivelare i propri gusti (lasciandone traccia), ha ridefinito i termini di tutte le relazioni sociali. Il rapporto di lavoro, ed in particolare – per quel che più ci interessa – il rapporto di lavoro alle dipendenze delle Forze Armate, non poteva non esserne toccato.
Sul piano giuridico, ciò ha costretto e tuttora costringe ad una difficile opera di revisione e adeguamento delle categorie tradizionali che costituiscono i capisaldi della disciplina di quel rapporto. È il caso del diritto di critica del militare-lavoratore (su cui ci soffermeremo), da un lato, e del potere datoriale di controllo, dall’altro.
Del resto, con l’avvento dei social, l’espressione del diritto di critica si trova di fatto in grado di raggiungere in un “click” un pubblico di utenti potenzialmente sconfinato, ed al contempo le possibilità di controllo possono spingersi fino ad un grado di pervasività mai sperimentato in precedenza.
Tanto considerato, in buona sostanza, cosa possono pubblicare su Facebook (e più in generale su internet) gli appartenenti alle Forze Armate o di Polizia senza incorrere in sanzioni disciplinari, o peggio ancora in conseguenze sanzionatorie sul piano penale?
Quali sono i limiti da rispettare? Qual è il giusto equilibrio tra libertà d’espressione, da un lato, e tutela del prestigio e dell’immagine del proprio Corpo di appartenenza (nonché della onorabilità dei propri superiori gerarchici o comunque dei propri commilitoni), dall’altro?
È indubbio, al riguardo, che ogni considerazione svolta in proposito in ambito militare sia comunque – vale a dire, nonostante la specificità dell’ambito considerato – debitrice delle riflessioni maturate dalla dottrina e soprattutto dei principi di diritto elaborati dalla giurisprudenza in campo sia giuslavoristico, che penale.
Ciò posto, per affrontare adeguatamente la materia, si tratterà prima di stabilire quali siano i contenuti condivisi che possono venire in rilievo sul piano giuridico, e poi di sottolineare le possibili conseguenze della condotta del militare sul piano disciplinare e/o penale.
- La rilevanza giuridica dei contenuti condivisi in rete dal militare
Procedendo con ordine, occorre domandarsi: tutte le informazioni condivise in rete dal militare possono acquisire rilevanza giuridica quanto al rapporto con l’Amministrazione Militare?
A tale domanda deve darsi senz’altro risposta positiva: tutto ciò che il militare decide di condividere in rete (post, commenti, immagini, video) può considerarsi per ciò stesso di pubblico dominio, e pertanto utilizzabile. Dottrina e giurisprudenza sembrano ormai aver più che consolidato questo indirizzo. Salva tuttavia una precisazione importante: è necessario distinguere tra contenuti condivisi pubblicamente sul proprio profilo (da ritenersi rilevanti) ed informazioni destinate in via riservata tramite messaggi privati ad uno o più utenti (inutilizzabili in ambito procedimentale e processuale), secondo un criterio fondato evidentemente sul tipo di strumento prescelto per la condivisione – tra quelli comunque messi a disposizione dai social – e sul conseguentemente distinto grado di accessibilità dei relativi dati.
Siamo così giunti ad una prima conclusione: i dati condivisi dal militare-utente tramite l’impiego dei social network devono ritenersi utilizzabili, salvo che si tratti di contenuti riservati, oggetto di messaggi privati scambiati in chat o comunque di comunicazioni ad accesso (adeguatamente) “filtrato”.
2.1 La rilevanza disciplinare della condotta
Identificati i dati condivisi astrattamente rilevanti sul piano giuridico, quanto al primo dei summenzionati ambiti di rilevanza, quello disciplinare, è senz’altro imprescindibile il riferimento a T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, n. 562/2016, con la quale si sono fissati alcuni principi di fondo in materia, finendo col ritenere legittima la sanzione disciplinare di corpo inflitta ad un militare per aver postato una foto del proprio sito di sorveglianza presso l’Expo di Milano.
A giudizio dei Giudici triestini, in particolare, il discrimine tra condotta lecita ed illecita sul piano disciplinare risiede essenzialmente nella lesività o meno dell’immagine resa pubblica.
Nel caso di specie, il militare aveva postato sulla propria bacheca delle fotografie che ritraevano il campo-base presso l’Expo in uno stato di totale degrado, completamente allagato a seguito di copiose precipitazioni, a testimonianza della situazione di precarietà in cui il personale al servizio delle Forze Armate si trovava ad operare in un contesto così importante per la nazione. Alle foto erano seguiti commenti negativi da parte di terzi.
In modo conforme al criterio generale sopra citato, il Giudice ha osservato al riguardo che Facebook dev’essere ritenuto un sito pubblico, perché qualsiasi fotografia, immagine o commento che vi siano postati si prestano per ciò stesso ad essere diffusi ad un numero non determinabile, né prevedibile di soggetti. Ciò posto, qualora intenda formulare eventuali critiche od osservazioni, il militare ha l’obbligo di utilizzare i sistemi riservati di comunicazione interni al Corpo di appartenenza, codificati dal d.lgs n. 60/2010 (nonché dal T.U. d.p.r. n. 90/2010), e di non pubblicare fotografie o divulgare commenti (anche di terzi) in grado di nuocere al prestigio dell’Amministrazione.
Si concludeva dunque per il rigetto del ricorso proposto e la conseguente conferma della legittimità della sanzione disciplinare inflitta (7 giorni di consegna).
2.2 La rilevanza penale della condotta
Oltre che in ambito disciplinare, l’utilizzo indebito dei social network da parte del personale in forza all’Esercito – nei casi in cui la lesività delle espressioni utilizzate e comunque dei contenuti condivisi, rivolti specificamente a superiori gerarchici o ad altri commilitoni, nonché ad un corpo militare, assurga a particolare gravità – può assumere rilevanza sul piano penale.
Viene in rilievo in proposito il reato di diffamazione, previsto e punito dall’art. 227 del codice penale militare in tempo di pace. A mente della suddetta disposizione, “1. Il militare che, (…) comunicando con più persone, offende la reputazione di altro militare, è punito, se il fatto non costituisce un più grave reato, con la reclusione militare fino a sei mesi. 2. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, o è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione militare da sei mesi a tre anni. 3. Se l’offesa è recata a un corpo militare, ovvero a un ente amministrativo o giudiziario militare, le pene sono aumentate”.
La giurisprudenza ha specificamente ritenuto che la condotta diffamatoria perpetrata in rete debba ricondursi all’ipotesi aggravata di cui al secondo comma della norma succitata, dovendosi ricondurre i social network nel novero degli “altri mezzi di pubblicità”, cui la disposizione si riferisce, data la loro idoneità a raggiungere un numero indefinito di destinatari.
È quanto ha ribadito la recente Cass., Sez. I Pen., 4 marzo 2019, n. 9385, in cui si è affrontato il caso di un militare tratto in giudizio per avere offeso la reputazione di due dei suoi superiori gerarchici – il comandante della Compagnia ed il comandante del NORM –, apostrofandoli sul proprio profilo Facebook come “due bambini” e “psicopatici in divisa”.
La Suprema Corte ha ritenuto integrato nel caso di specie il reato di diffamazione, per di più nella forma aggravata suddetta, osservando che “ai sensi dell’art. 227, comma 2, del codice penale militare di pace, il reato di diffamazione è aggravato «se l’offesa è recata per mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità», come appunto avvenuto nel caso di specie (si ribadisce che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca “Facebook” integra un’ipotesi di diffamazione aggravata, poiché trattasi di condotta potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato o comunque quantitativamente apprezzabile di persone: Cass. Sez. I Pen., n. 24431 del 28/04/2015”.
Si è esclusa altresì la ricorrenza dell’esimente del diritto di critica, che presuppone, al contrario di quanto in concreto verificatosi, che “l’offesa non si traduca in una gratuita ed immotivata aggressione alla sfera personale del soggetto passivo ma sia “contenuta” (requisito della “continenza”) nell’ambito della tematica attinente al fatto dal quale la critica ha tratto spunto”.
Si è così confermato un indirizzo ormai consolidato, tanto nella giurisprudenza penale militare, quanto in quella penale ordinaria, che riconduce tali fattispecie al corrispondente reato di diffamazione aggravata dall’uso di mezzi di pubblicità, di cui all’art. 595 c.p., comma 3 (si veda, ex multis, Cass. , Sez. V Pen., 3 maggio 2018, n. 40083).
Semmai, sarà bene aggiungere che la mancata espressa identificazione del destinatario o dei destinatari delle espressioni diffamatorie non è elemento sufficiente a determinare l’esclusione della responsabilità penale. Come è ormai da tempo stato chiarito dalla giurisprudenza, infatti, “Si configura il reato di diffamazione a mezzo di strumenti telematici se i commenti diffamatori, pubblicati tramite post sul social network Facebook, possono, pur in assenza dell’indicazione di nomi, riferirsi oggettivamente ad una specifica persona, anche se tali commenti siano di fatto indirizzati verso i suoi familiari” (in questo senso, ad esempio, Cass., Sez. V Pen., 19 ottobre 2017, n. 101).
Conclusioni
Si possono ora tirare le fila del discorso, rimarcando che è oltremodo evidente che la diffusione dei social network rappresenti una delle maggiori novità degli ultimi anni, e come tale incida in modo determinante in ogni aspetto della vita di relazione di ciascuno.
L’ambito militare non poteva rimanere escluso dalle ricadute – positive e negative – derivanti dall’utilizzo su larga scala di questi mezzi di comunicazione di massa.
Il potenziale rilievo disciplinare e penale dei contenuti condivisi in rete costituisce ormai un dato scontato e pacifico nella giurisprudenza ordinaria, amministrativa e militare. Ciò con la sola rilevante eccezione delle informazioni che siano condivise in modo privato, con uno o più soggetti determinati (e dunque con l’espressa esclusione della generalità dei terzi), e fatto salvo il diritto di critica, purché questo si manifesti entro i limiti succitati della c.d. continenza, oltre che nei canali interni specificamente apprestati dall’ordinamento militare.
Non può che derivarne un monito a ciascuno di noi, volto ad accrescere la consapevolezza della rilevanza ed insieme della delicatezza (estrema) degli strumenti di comunicazione oggi a disposizione, e delle conseguenze (anche drammatiche) che un loro impiego superficiale può comportare.